Due parole sul blog

Se pensate che qui si parli di Fate, Elfi e Creature simili, beh, avete ragione.
Quasi.
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Su, su, guardate, guardate...

venerdì 9 novembre 2012

Frammenti: Il Dono p.8

Post modificato, rimangono a disposizione piccoli estratti dei capitoli.


...Finalmente il treno fermò all’ultima stazione, il Picco.
L’aria era frizzante, fredda, limpida e cristallina ancor più che alle Terme.
La neve copriva ancora quasi del tutto i prati e ce n’erano grossi mucchi accumulati accanto alle case, per lo più trasformati in campi gioco per i bambini, che avevano costruito pupazzi di ogni forma e dimensione ed ora giocavano ad arrampicarsi sui cumuli e lungo i pendii, per poi scivolare a pancia in giù come pinguini su slitte improvvisate con coperte di feltro o con le giacche a vento.
Ogni tanto uno arrivava in fondo, ruzzolava e quelli dietro gli arrivavano sulla schiena, finendo per ammonticchiarsi gli uni sugli altri.
Nessuno si metteva ad urlare o piangere, anzi, ridevano a crepapelle e poi si lanciavano palle di neve.
I cani giocavano e correvano con loro, vigili; di quando in quando qualche adulto buttava l’occhio, poi tornava alle proprie occupazioni.

Li lasciavano crescere, vegliavano su di loro senza opprimerli, senza fobie iperprotettive, senza isterismi e i bambini si crescevano l’un l’altro e si facevano crescere dai grossi cani, scoprendo la vita e se stessi un giorno dopo l’altro, un’avventura fantastica dopo l’altra nel giardino di casa, lungo le stradicciole del paese, tra pinete e pascoli.
Che invidia! Come avrei voluto un’infanzia così!

Provai una fitta allo stomaco: io avrei dovuto avercela, un’infanzia così, anche se magari part-time!
Alzai gli occhi verso le Montagne che incombevano su di noi, splendide, maestose, scintillanti nel sole del mezzogiorno, stagliandosi contro il cielo blu zaffiro.
Mi guardavano un po’ indifferenti, un po’ compiaciute: stavo tornando a casa.
Per loro era trascorso meno di un battito di ciglia da quando, fagottino inconsapevole, me ne ero andata. Per me era stata la vita.
Una brutta vita, che non era la mia e, la mia, nessuno avrebbe potuto restituirmela.
Infilai il golf, mi sistemai in spalla il borsone e seguii gli altri sul carro per Forno.

La casa della zia Greta era la casa dei miei sogni: una baita di legno su due piani, con un giardino intorno, un grande albero a sfiorare le finestre della mansarda, camino, veranda, terrazza perlinata che presto sarebbe stata piena di fiori da scoppiare, c’era un gatto color champagne ad aspettare la sua umana alla finestra.
In quelle due settimane i vicini avevano avuto cura di lui, ospitandolo, nutrendolo, permettendogli di andare a casa sua quando ne aveva voglia e di stare da loro se lo desiderava.
C’era anche un cane, un grosso bovaro bianco, simile ad un Cecoslovacco incrociato con un Pastore dei Pirenei, insomma, la versione maxi di un pastore svizzero.
Ci vide, o ci sentì, prima ancora che entrassimo in paese e si precipitò giù lungo la strada abbaiando entusiasta.

Micky e il micione della zia fecero amicizia più in fretta di quanto Usain Bolt avrebbe corso i duecento piani e cominciarono a saltare per il giardino, rincorrendosi, duellando, facendosi agguati e rotolando come una grossa palla di colore indefinito con pezzi di foglie e terra appiccicati dappertutto.
Non sarebbe stato facile convincere il mio ragazzo a tornare a casa, in città, forse nemmeno le terme gli sarebbero piaciute più molto, dopo due giorni lassù.
Entrando, il profumo del legno, lo stesso che si sente nell’entrare in un rifugio, ma più dolce e casalingo, mi riempì le narici.
È quello l’odore che dovrebbe avere una casa: legno, resine, vento, un po’ di cenere e stufa, bucato e magari spezie bruciate nel camino.

(...)

E poi fui davanti a quella cosa.
Una parete di granito levigata da migliaia di anni di sfregamento col ghiaccio. Scura, liscia come uno specchio, dalla forma curva, sensuale, tipica dei mammelloni1 glaciali. Solo che, lì, davanti ai nostri nasi, c’era un passaggio, chiaramente ampliato e lavorato da mani pazienti, così da permettere l’ingresso di un adulto un po’ spremuto.
Ci infilammo uno alla volta, di traverso e, per l’appunto, spremendoci.

Era un geode con all’interno quarzi, ametiste, calciti e aragoniti dalle forme folli, fluoriti, vesuviane, pallette di stilbite e altra roba che non finii di registrare, avendo una improvvisa paresi ai neuroni.
I quarzi crescevano per lo più a grappoli, che iniziavano perfettamente trasparenti e viravano al fumé, fino al morione puro, tutto nello stesso gruppo.
Non avevo mai visto niente del genere. C’erano geminati da una faccia ialina e l’altra, opposta, mora come cioccolato e, davanti a me, c’era un cristallo di Ametrino2 che mi arrivava tranquillamente alla cintura.
Ma il peggio era che, in fondo alla pancia del geode, immobile tra la roccia completamente incastonata di cristalli adamantini e un grappolo delle dimensioni tavolino, c’era una ragazza.

Solo che non era proprio una ragazza. Aveva carnagione alabastro, in contrasto con i capelli scuri che le ondeggiavano attorno al viso ovale, intento in una profonda meditazione, le mani a coppa attorno al cristallo più grande, con cui sembrava essere in comunione. Non sembrava consapevole della nostra presenza ed era, ecco, come dire, leggermente trasparente, tanto che potevo intravedere la parete alle sue spalle.
Non riuscivo a staccare gli occhi da quella visione.
Mi voltai interrogativa verso gli altri, che mi fecero segno di restare silenzio. Joelle sedette tra i cristalli come in un prato di margherite e, tranquillamente, si mise a raccoglierli.

Ero basita: quelle pietre si staccavano come fiori dalla matrice non appena lei li toccava. Prese un Ametista con diverse geminazioni, un paio di fluoriti rosa grosse così, qualche morione di un incredibile grigio antracite e lucenti come stelle, quarzi ialini che sfumavano nel bruno e un quarzo a Scettro fantastico.
La ragazza non diede segno di accorgersi di nulla, immersa nella sua meditazione.

Nicolas mi fece cenno di sedermi e raccogliere, ma non osavo: mi limitai a toccare con reverenza quelle cose meravigliose e a prendere piccoli cristalli staccati al suolo, che comunque mi riempirono le mani. “Davvero posso?” mimai a Nicolas, che sorrise. Lui prese dalle pareti un po’ di cose che ripose nello zainetto e poi mi fecero segno di andare.

Mi alzai a fatica, non potendo usare le mani piene di pietre e urtai leggermente il grande gruppo di Ametrino proprio accanto alla mia caviglia, che si staccò dalla base, finendo in bilico contro la mia gamba. Restai immobile, col piede a mezz’aria e le mani piene di tesori quasi all’altezza della faccia.
Dovevo sembrare parecchio idiota.
Nicolas prese tra le braccia il grappolo e io potei posare i piedi a terra, infilai i cristallini in un sacchetto che mia cugina mi porgeva e ci avviammo alla fenditura.

Mentre uscivo mi voltai e lei, improvvisamente, alzò su di me grandi occhi nero pece, profondi come pozzi fino al centro della terra.
Mi fissò per un istante interminabile, mentre qualcuno mi spingeva oltre l’apertura. Provai un incredibile sensazione di terrore e di attrazione che non mi mollò fino a quando i miei piedi calcarono i caldi detriti della morena, nel sole.

1 Mammelloni: Tipica formazione rocciosa curva, molto levigata e a solchi paralleli data dall’erosione e dalla spinta glaciale.
2 Ametrino:  Cristallo di Quarzo sfumante da viola (Ametista) e giallo o champagne (Citrino).

(...continua link p.:9)

4 commenti:

  1. Black Baccarat non ti mangerà per cena se continui a produrre mondi come questo :-)
    Però ti posso bacchettare un po' perchè mi fai aspettare troppo??!!! XD

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  2. No, ehm, ecco, infatti la mia preoccupazione era quella, ma c'erano un sacco di cose e poco tempo, e...va beeeene, farò in modo di metterli più spesso...

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  3. Eccomi eccomi eccomi!!!!concordo con Black Baccarat!!!che mondo, ragazzi!!!meraviglioso!!!riesco proprio a "immergermi" in quella realtà...
    eh..non è mai troppo lungo un racconto, se poi quando lo leggi ti fa stare bene!!ancora ancora!!

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