Buon viaggio!
(Link ai capitoli precedenti: Parte 2 , Parte 1 )
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[…]
Due settimane dopo ero in viaggio per AkhetAton, nascosta su una barca
diretta verso MenNefer[6],
da cui avrei dovuto fingere di arrivare.
Per maggior sicurezza avremmo superato la città del faraone e incrociato
una chiatta mercantile, proveniente da Nord, dove io sarei salita e tornata
indietro per un tratto.
Ero molto triste, sola, spaventata: non avevo mai lasciato Waset, se non
per qualche breve soggiorno al Delta, o nelle zone boscose fuori dalla città, e
sempre accompagnata. Il mondo mi sembrava improvvisamente immenso e minaccioso
ma, allo stesso tempo, non vedevo l'ora di conoscere questo misterioso bambino.
Giunsi finalmente alla città eretica e cercai la casa indicatami dal Sacerdote.
Mi attendeva una coppia di vere
spie, persone fedeli ai Due Regni, che avevano seguito, in incognito, il
faraone.
Mi spiegarono come avrei dovuto comportarmi, cosa avrei dovuto dire e cosa
no, mi dissero di fingere sempre di pendere dalle labbra di Amenophi, che avrei
dovuto chiamare Ekhnaton, e mai avrei dovuto mostrare irritazione o fastidio
quando derideva i vecchi dèi o incensava se stesso, né avrei dovuto farmi
trovare con oggetti di culto o a pregare, salvo che si trattasse dell’Aton.
Avrei dovuto dimenticare Aset e i suoi riti per tutto il tempo in cui fossi
rimasta in città.
Ma io ero una novizia, non potevo fare una cosa del genere! Il mio contatto
mi mise le mani sulle spalle e disse che il volere della Dea era che io la
dimenticassi con il corpo e la tenessi nascosta nel cuore, per il bene di
tutti.
Mi fidai, ma stavo male e le lacrime mi pungevano gli occhi.
Non avevo madre, né padre, Aset era stata entrambi. Mi aveva cullata tra le
sue braccia di pietra, accarezzata con raggi d'argento, consolata con la brezza
notturna, curata con il canto del fiume... non esisteva, per me, dimenticare la
mia Dea, anche solo per finta. Mi sentivo molto infelice e smarrita.
La mattina dopo, mi accompagnarono al palazzo reale, dove fui presentata
come nuova bambinaia del Principino.
Amenophi, era là: altissimo, magrissimo e con la pancia, con quella faccia
cavallina che lo distingueva, declamava se stesso a gran voce affacciato al
balcone, assieme a una Nefertiti bellissima, altera e, mi parve, piuttosto
annoiata. Poi, prendendoli da ceste ai propri piedi, gettava monili e pezzi
d'oro sulla folla esultante.
Era ricca, AkhetAton. Era la città più ricca ed elegante che avessi mai
visto, perfino più delle Capitali, fino a pochi anni prima, di un Egitto ricco,
prospero e potente, che ora, a confronto di questa nuova città del faraone,
erano opache e pesanti, cupe per un malessere che aleggiava su ogni cosa, piene
di rabbia tenuta faticosamente a freno.
Qui erano arte e opulenza ovunque, giardini, ville lussuose, oro sulle case
e sulla gente, le strade erano piene dei profumi di essenze rare e cibi
prelibati. Sembrava non esistessero poveri, malati, infelici e nemmeno vecchi. C'era da rimanere storditi: sembrava davvero la città degli dèi, mentre il resto dell'Egitto languiva, minacciato, indifeso, allo sbando.
Finsi interesse stringendo i denti e soffocando la rabbia, mentre mi conducevano verso un giardino interno.
Attorno a me sfilava una moltitudine di personale: ancelle, guardie,
servitori, dignitari, concubine bellissime, il trucco pesante a nascondere lo
sguardo assente e amaro, alcune indifferenti, altre che si scambiavano gesti di
rivalità, in quel paradiso di gesso.
Capii che tutto quell'oro, l'opulenza e l'eleganza, nascondevano, più che
in qualsiasi altro luogo, fanatismo, intrighi, invidie e chissà quali oscuri
segreti. Avevo davvero paura, ora, ma, appena entrai nel giardino, fui distratta dalle urla entusiaste di un bambino: «Sei qui! Sei arrivata finalmente!»
Non feci in tempo a rendermi conto di chi o dove fosse, che me lo trovai
avvinghiato ai fianchi, il visetto schiacciato contro il mio stomaco e rivolto
in su a guardarmi con due occhioni dorati dolcissimi. Il mio cuore ebbe un
tuffo: non lo avevo mai visto, non ne conoscevo nemmeno il nome, ma lo adoravo.
«Mi aspettavi?» chiesi imbarazzata: «Certo che sì! Ti aspettavo da sempre!»Io mi sentii avvampare, le ancelle risero. Mi inginocchiai per essere alla sua altezza e lo osservai: «Allora sei tu il mio bambino? Quello di cui mi devo occupare?»
Lui annuì vigorosamente, un sorriso che gli teneva tutto il visetto minuto.
Ci guardammo negli occhi per un momento interminabile e mi resi conto di non trovarmi di fronte a un bambino come tutti gli altri.
*****
Annuii di nuovo, non sapevo che dire: «Non stai bene? Non sei felice di
essere con me?» chiese mollando il gioco e appoggiando le manine infangate
sulle ginocchia: «Io… tu sei carino, molto carino, ma mi sento sperduta, qui,
sai? Devo ambientarmi». Lui si illuminò: «Ma sei contenta di essere con me?»
Annuii: «Sì».
Era la cosa più vera che avessi detto da molti giorni a quella parte.«Allora non preoccuparti, devi solo stare con me, io non ti lascerò mai sola, promesso!»
Era una sensazione strana, essere con lui. Per la prima volta nella mia vita, improvvisamente e inaspettatamente, provavo un senso di pace, come se fossi arrivata a casa e lui fosse la casa del mio cuore. Non importava se, intorno, tutto era estraneo e oscuro: c'era lui e, per quanto mi riguardava, c'era la luce.
*****
Accennò un sorriso e mi sfiorò la guancia con la punta delle dita: «Tu hai cura del mio bambino?» domandò.
Io annuii: «Sì, Signora». Il suo sorriso si fece più ampio: «Abbi cura del mio bambino!». Non compresi esattamente il senso di quella frase, finché, un paio di mesi dopo, Kiya morì.
*****
Quando fummo soli, lui si accoccolò in riva al fiume, giocherellando con un
giunco nell'acqua per un po'. Io non avevo famiglia, è vero, ma lui, sebbene
avesse un gran numero di sorelle, un padre, cugini, fratellastri e un'intera
Corte ai suoi piedi, sembrava molto più solo di me. Anche la madre, per quanto
fosse una donna dolcissima, non stava molto con lui, almeno in quelle settimane
da cui ero arrivata, forse a causa della sua salute.
Gli sedetti accanto, sulla sponda, lui che si asciugava gli occhi tirando
su col nasetto di quando in quando, perso nei suoi pensieri.
«Facciamo una preghiera ad Aset?» mi chiese dopo un po'.«Non vuoi pregare Aton? Questo è dedicato a lui!» Il bimbo scosse la testa: «È Aset che conosce tutti i nomi e tutti i segreti, me lo hai detto tu!».
Annuii: «Ma non è quello che ti insegnano i tuoi precettori e tuo padre».
Lui lanciò il bastoncino nel fiume, seccato: «Il faraone non è mio padre! Non è che un impostore sul mio trono!»
Restai a bocca aperta: «Su... sul tuo trono? No, ma cos… cosa dici, lui è
tuo padre, certo che lo è! E il trono è… è suo… voglio dire… no?»
Il bimbo si strinse nelle spalle minute: «Non è mio padre! Lui è soltanto
il mezzo attraverso cui sono venuto al mondo! Lui non… non è come me».Poi si voltò a guardarmi, due occhioni immensi di disperazione: «La facciamo la preghiera ad Aset?»
Trovammo un posto adeguato e nascosto, lì, tra le canne, aspettammo che scendesse il buio, poi gli spiegai il rito, che lui eseguì diligente, più concentrato di un adulto.
Più tardi lo convinsi a mangiare qualcosa: sembrava che, dopo aver
benedetto il viaggio della sua mamma, si sentisse più sereno. Quando lo misi a
dormire si infilò sotto la mia coperta e mi abbracciò: «Io non ce l'ho più la
mia mamma, adesso. Sarai tu la mia mamma?» sussurrò tenendomi le braccine al
collo, la fronte contro la mia. Lo strinsi forte: «Certo che lo sarò. Sarò la
tua mamma, tua sorella, la tua migliore amica, tutto quello che vorrai!»
«E starai sempre con me, anche quando sarò grande?» «Sì, se tu lo vorrai.»
«Io lo voglio!»
«Allora starò sempre con te, Dolce Bambino delle Meraviglie».
Nascose la testa nell'incavo del mio collo come un cucciolo e gli cantai una ninnananna perché si addormentasse.»
(...continua link p.: 4.)
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